lunedì 13 maggio 2019

Quando un narciso incontra il miele

Daffodil e Delivre Moi, Technique Indiscrete;
ovvero quando un narciso incontra il miele, la cera d’api e l’eucalipto.


L’inverno finisce quando un primo pomeriggio ti accorgi che il sole non è più così pallido, i colori sono un pò più accesi, e sui prati umidi di rugiada brillano alcuni fiori dalla bellezza semplice e sorprendente.
I narcisi sono splendidi piccoli soli gialli ,oppure arancio con un alone di corolle bianche; il loro profumo è confortante, lievemente narcotico, suadente, un regalo della primavera che risveglia i sensi e prepara alle giornate che si allungano mentre le ombre si ritirano silenziosamente.
Daffodil è un profumo molto fedele al fiore sbocciato, scaldato da un sole gentile, dalla persistenza bassa, come effluvio naturale vicino a zone umide.

Il miele di eucalipto è lievemente balsamico, le foglie della pianta sono profumate di una nota canforata; la cera d’api ha un bouquet anch’esso lievemente canforato, un pò appiccicoso, a tratti ricordi di legni, una secrezione preziosa che acquista sfumature sorprendenti lievemente catramate. Delivre Moi è un profumo che si ispira all’esperienza di apicoltore del suo creatore, e racchiude in sé le sensazioni olfattive dei doni delle api e del giardino vicino alle arnie.

Quando questi due profumi si incontrano, il narciso acquista potenza, il miele esalta i propri sentori aromatici, la nota balsamica si fonde col verde delle foglie del fiore; nel fondo, la cera d’api cristallizza le sensazioni olfattive nella propria essenza, fondendosi con la pelle di chi li indossa.

Così può capitarti, quando li indossi insieme, di sentirti la primavera addosso; vederti passeggiare sulla riva di un fiume, verso la fine di marzo, in un meriggiare tiepido, con l’aria carica di speranze e il cuore leggero che aspira i vapori della stagione che arriva. Gli insetti ronzano attorno, le api sono in attivitá, le ali trasparenti e il corpo tozzo sporcato di polline. E ti senti parte di un piccolo immenso meraviglioso universo perfetto, in cui c’è un significato per tutto.





domenica 12 maggio 2019

Il vento

La voce del vento è una voce fatta di mille voci.
Racconta di mille vite e di una. 
Risuona  fra le foglie di mille alberi, accarezzando mille spighe verdi.
Le parole del vento sono mille e una sola. Sono lingue diverse e anche una sola lingua.
L'odore del vento è fatto dal nostro stesso odore, e dall'odore di mille altre cose. Si porta dietro tanti odori diversi, da tanti luoghi vicini e lontani.
È un muschio pulito, cristallino, che viene da Nord; oppure un alito denso di sabbia e effluvi d'Oriente, che viene da Est. Se viene da Ovest, porta l'odore di mare e di verde; da Sud, trascina il sole e il sale.

A volte il vento viene da vicino, a volte attraversa mille continenti. Pianure, vallate, con suo fardello di nuvole.
Certe volte sono una coperta spessa e fitta, le nuvole, altre volte sono fiocchi di cotone, altre ancora ditate di polvere bianca e rosa.

Il vento.

Tornando a Ferrara

Avvicinandomi alla cittá, il cielo immenso della pianura, che le nuvole pesanti coprivano quasi completamente, non mi pareva affatto minaccioso ma piuttosto come una coltre invitante e soffice, che mi avrebbe accolto in caso di eccessive emozioni.
La prima cosa che vidi fu il campanile di San Giorgio, con la sua singolare architettura e la lieve pendenza, e risentii di nuovo dentro quella dolce serenitá che mi pervadeva quando la sua immagine mi appariva, da bambina. Potevo quasi sentire il profumo dei dolci con cui la casa dei nonni mi avrebbe accolta. Quel campanile annunciava che sarebbero mancati solo pochi minuti, e poi avrei baciato le guance sode e profumate di sapone della nonna, e sarei stata accolta fra le braccia sicure del nonno, che sapeva di brillantina per capelli.
Dopo aver passato la porta d’ingresso su Corso Giovecca, man mano che mi avvicinavo alle vie del centro, mi accorgevo che le mie labbra si stendevano in una sorta di sorriso, e negli occhi le immagini di un tempo si mescolavano a quelle del momento. Quel selciato che percorrevo da bambina, sui grandi marciapiedi, era sempre lì ad accogliere i passi di chi lo calpestava. Ricordo che giocavo a non pestare le righe fra una pietra e l’altra. E più mi avvicinavo alla via in cui c’era la vecchia casa dei nonni, più mi sentivo parte della cittá; ma in un modo tutto privato e personale, difficilmente comprensibile agli altri, perchè difficile perfino da spiegare a se stessi.
Il portico di Piazza Ariostea, nella sua austeritá, mi colpì ancora come sempre, e come tanto tempo fa mi fece rimpiangere di non aver mai avuto un passato di infanzia e biciclette da poter rivivere dentro me stessa. Piuttosto, quel portico aveva visto i miei turbamenti successivi, quando non ero certa di cosa volere dalla mia vita.
Avevo affidato oscuri pensieri alle ombre di quelle volte, cercando risposte che non trovavo dentro di me. Ma nella loro armonia cercavo anche una specie di chiarimento interiore, che però non ebbi mai; quel portico per me rappresenta qualcosa di inquieto, le sue luci ed ombre non le ho mai collocate in modo sereno nel mio spazio interiore.
Passeggiando, ricordai quando la mamma mi portava al Parco Massari, un giardino pubblico che si estende fino alla Certosa Monumentale. A me da piccola pareva enorme, un parco sconfinato; mi sentivo parte di un mondo grandissimo e di una realtá cittadina che non era quella in cui vivevo quotidianamente, e che mi affascinava moltissimo. La mole bianca del Palazzo Diamanti, con le sue meravigliose geometrie senza tempo, antiche ma modernissime, forse al di fuori di un tempo fisico, mi diede come sempre un senso di splendida serenitá interiore. Come qualcosa che esiste al di lá delle miserie umane, della malattia, della morte, delle perdite e della caducitá di tutte le cose; i diamanti del bugnato sono una certezza immota, qualcosa che trafigge l’anima con la purezza delle linee.
Mi incamminai lungo corso Ercole d’Este verso la Certosa, costeggiando la dimora abbandonata dei Finzi Contini; quel giardino che non c’è, invenzione letteraria di Bassani, è ancora più bello proprio perchè inconsistente, come le nebbie che avvolgevano la cittá tanti anni fa, nelle quali mi piaceva moltissimo perdermi. Ho sempre trovato inscindibile quel binomio nebbia- architettura estense; i volumi assumono contorni diversi nello spessore bianco e indistinto, e ci sono delle sfumature di colore che appaiono solo quando c’è nebbia. Il sole fa brillare i toni, ma ne occulta altri che sono più enigmatici e che forse fanno parte dell’armonia di quei portici perfetti. Ricordai di quel giorno in cui , poco più che ventenne, percorsi in novembre quel viale maestoso, e le forme eleganti della Certosa mi apparvero facendosi largo fra i vapori nebbiosi;La tranquillitá che scaturiva da quella visione era parte integrante del suo fascino. Come una splendida donna che si toglie un velo sottile.
Ripercorsi con lo sguardo la teoria di archi e colonne bicrome; quella ripetitivitá curvilinea in cui lo sguardo tende a perdersi, irretito da quel binomio riposante e quasi ipnotico. Solo le statue, angeli con la tromba, a interrompere le forme sempre uguali, messaggeri di morte o di rinascita, gelidi nel loro candore di marmo, impietosi nella posa statica verso il cielo. Archi infiniti per storie infinite.